LE HO VISTE TUTTE
Vent’anni di biblioteche scolastiche
Appunti per la relazione tenuta al Convegno Nazionale del
CONBS - Coordinamento Nazionale Bibliotecari
scolastici
Milano,
7/2/225
Cominciamo con le presentazioni.
Anche se in questo momento non sono né bibliotecario scolastico né docente
bibliotecario, tuttavia il bibliotecario l’ho fatto per molti anni, dodici,
dall’85 al 97, da titolare di cattedra, in un istituto tecnico, gestendo una
biblioteca che dai 6.000 volumi iniziali ho portato a 14.000. Erano i tempi in
cui un insegnante in servizio poteva occuparsi di biblioteca nelle ore a
disposizione e se chiedeva di poter frequentare un Master in biblioteconomia
(comunque non ce n’erano…) si vedeva rispondere con un sorrisetto che
significava “Ma lei è matto…”. Tuttavia non sono caduto nella trappola del “fai
da te”: mi sono reso subito conto, infatti, che la biblioteconomia è una
scienza che lascia poco spazio agli empirismi, e ho cominciato a studiare. Gli
anni dall’85 al 97, poi, vorrei ricordarlo, sono stati anni di grandi
cambiamenti nel mondo delle biblioteche, scolastiche e no: hanno visto il
passaggio dal catalogo cartaceo alla scheda virtuale, dalla schedatura
personale alla schedatura partecipata, dalle competenze biblioteconomiche a quelle
informatiche; dai tasti della Olivetti ai link di Internet. Insomma: ho cercato
di seguire i cambiamenti studiando e applicando ciò che andavo man mano
apprendendo. Alla fine ho riversato il mio “sapere” in un piccolo Manuale del bibliotecario scolastico che
ho reso disponibile in Internet (www.webalice.it/loris.pellegrini/biblioteche)
e che, mi dicono, è stato molto letto ed ha aiutato più di un bibliotecario
scolastico: mi fa piacere, il sapere va condiviso.
Finite le presentazioni veniamo
alla relazione. Perché questo titolo: “Le ho viste tutte”? Perché di
biblioteche scolastiche ne ho viste parecchie, perché a proposito di
biblioteche scolastiche ne ho viste di tutti colori, a partire dal fatto che
troppo spesso l’accento viene posto su “biblioteca” mentre dovrebbe venir posto
su “scolastica”. Ne vorrei parlare con voi perché in fondo le biblioteche
scolastiche si possono “classificare” (“classificare” parlando di biblioteche è
una bella tautologia…) in alcune grandi categorie e in una di queste è probabile
che riconoscerete la vostra. Individuato il tipo è più facile chiedere e dare
un consiglio.
Cominciamo, ad esempio, dalle biblioteche
presenti in scuole che non si pongono neanche il problema della biblioteca:
mezze aperte, mezze chiuse, tirano avanti come possono nell’indifferenza generale:
gli insegnanti si guardano bene dal sollevare il problema: dare dei libri da
leggere ai ragazzi significa scegliere, correggere, ecc.: meglio le due
paginette dell’antologia; i dirigenti si guardano bene dal sollevare il
problema: una biblioteca vuol dire un aumento di lavoro amministrativo e un investimento
economico che potrebbe magari essere speso in altri bei progetti un po’ più
fumosi ma di “sicura” immagine.
In una situazione come questa
verrebbe da pensare che il povero bibliotecario – tra l’indifferenza dei
colleghi, la sottile ostilità della dirigenza, l’impossibilità di lavorare con
continuità – potrebbe anche pensare al suicidio. E in vece no. Se non c’è la
domanda, se gli studenti non vengono perché non sanno neanche che c’è una
biblioteca, si può pensare di attivarla, la domanda, attivando l’offerta.
Vorrei citare, ad esempio, le esperienze del tavolino con i libri all’ingresso
della scuola (come è stato raccontato in un convegno a Reggio Emilia), o il BOBI,
il Bollettino della Biblioteca di cui io stesso ho curato una ventina di numeri
per l’ I.T. Geometri di Rimini, numeri che potete trovare sul sito del COBIS.
Insomma: se non è possibile
l’ordinamento “scientifico” della biblioteca (attraverso la sacra trimurti:
CDD, RICA, ISBD) si può fare ugualmente una ottima educazione alla lettura.
Poi ci sono le scuole che il
problema della biblioteca, almeno, se lo pongono, e se lo pongono talmente
che fanno grandi progetti, chiamano l’esperto, organizzano conferenze, ma i
libri poi rimangono sempre gli stessi, stipati nei soliti armadi. I grandi
progetti, infatti, parlano in genere di “biblioteca multimediale”, di “rete”,
citano sigle misteriose come “classificazione Dewey”, “catalogazione
partecipata” quasi fossero formule magiche capaci di sanare tutti i mali, e in
attesa della “grande opera”, quasi una ristrutturazione alchemica della
biblioteca, non riescono o non vogliono affrontare i piccoli mali della
quotidianità che potrebbero facilmente essere risolti: inventario, riordino, recupero
dei libri dispersi, apertura ad orari regolari, ecc.
In questo caso il bibliotecario,
o la bibliotecaria, può scegliere fra il “complesso della madre di famiglia”
(gettarsi anima e corpo, cioè, a fare qualcosa dovendosi aspettare, però, che
prima o poi qualcuno gli farà notare che ha sbagliato) o la sindrome di Sisifo
(fare-disfare, fare-disfare, ecc.). Quello che è certo è che dovrà evitare nel
modo più assoluto di cadere nella trappola della buona fede (“Non ne sapevo
niente di tutte questa regole…”), o, peggio ancora, quella del “vocazione al martirio”
(“Quante ore ho lavorato in biblioteca, e gratis!”). Un lavoro mal fatto non ha
scusanti. E vale la pena di fare qualcosa che qualcun altro, poi, dovrà buttare
via? È una domanda che chiunque si accinga a lavorare in una biblioteca deve
farsi.
Ed eccoci giunti alle scuole
che la biblioteca ce l’hanno e funziona. Tutto bene dunque, verrebbe da
dire. No. Perché, purtroppo, molto spesso queste biblioteche sono organismi
“autarchici”: hanno elaborato sistemi di catalogazione “personali”, adottato
schedature “particolari”, accettato con orgoglio il principio che “chi fa da sé
fa per tre”. È difficile confrontarsi con queste perché da un lato vorresti
complimentarti con l’istituto che ha reso funzionante uno strumento didattico
fondamentale come la biblioteca. Ma, invece, ti trovi a doverlo rimproverare.
Perché se è vero che “piccolo è bello” (come andava di moda dire qualche anno
fa…) grande è meglio: la biblioteca non può essere un regno per gli “happy
few”, i pochi felici. Oggi la biblioteca non è più solo un luogo di
conservazione, semmai di scambio. La parola d’ordine è: interagire.
Infine ci sono le biblioteche
che funzionano e che si aprono verso l’esterno, ma queste sono lodevoli
eccezioni e noi qui non ci occupiamo dei miracoli. Attenzione però ai “falsi
miti”.
·
Il primo mito da sfatare, forse, è quello del catalogo generale di tutte le BS: è un
lodevole obiettivo dal punto di vista “conservativo” (ho un quadro del
patrimonio librario) ma è inutile sapere dov’è il libro se non c’è il prestito
interbibliotecario e le BS, lo ricordo, non sono biblioteche pubbliche e non
obbediscono al loro regolamento.
·
Il secondo mito è la biblioteca perfetta: è inutile una BS ordinata ma chiusa per
mancanza di personale.
·
Il terzo, infine, è l’idea di biblioteca scolastica come biblioteca
pubblica: non può diventarlo: la BS è uno strumento di lavoro didattico che
può anche funzionare come biblioteca
“aperta al pubblico” ma senza dimenticare la sua funzione è didattica NON
conservativa.
Conclusione
Ne vedremo delle belle:
1. finché
le scuole non si renderanno conto che la BS è è un gabinetto scientifico come
quello di fisica e di chimica e che gli deve essera data almeno la stessa
attenzione che si hanno verso questi;
2. finché
il problema della “conservazione” in una BS sarà visto come più importante di
quello della promozione alla lettura;
3. finché
il bibliotecario cadrà nella seducente trappola del “fai da te” e del
“martirio”: non ci si improvvisa bibliotercari e non è sufficiente la buona
volontà;
4. finché
dunque non nascerà la figura del bibliotecario documentalista, legalmente
riconosciuta;
5. finché
si “coltiverà il proprio giardino” (per usare una felice espressione di
Voltaire) senza rendersi conto che intorno a noi il mondo cambia e che il
nostro lavoro ha un senso quando serve a molti e non solo a noi;
6. finché
infine si li lascerà sedurre dalle facili sirene delle mode e dei miti di passaggio.
Grazie e buon proseguimento dei
lavori.
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